Mi chiamo Anna Maria, sono un’insegnante della scuola primaria, amo il mio lavoro e credo di avere ancora tanto da dare ai miei bambini. Lavoro in Emilia Romagna ma sono fieramente siciliana.
Ho vissuto per 18 anni al nord, perché lì, all’età di 22 anni, fresca di laurea, ho scelto di mettermi in gioco, di lasciare tutto pur di rimettere piede in una scuola, questa volta da insegnante.
La mia vita, professionale e non, si è svolta lontano dalla mia terra, dai miei affetti, in un posto nuovo per me, che mi ha permesso di far crescere i due figli che nel frattempo ho avuto da mio marito, anche lui siciliano, che mi ha seguita al nord per rincorrere l’ambizione e la gratificazione di un posto di lavoro, dopo anni di studio e la voglia di farcela.
Abbiamo trascorso lunghi inverni, provato tanta nostalgia e voglia di tornare ogniqualvolta il lavoro ce lo permetteva e poi ancora lacrime e distacco da tutto e tutti, nella speranza che i mesi bui passassero in fretta e lasciassero ancora il posto alla spensieratezza delle vacanze e alla gioia di tornare.
Mai nella vita avremmo pensato di far ritorno a casa e, a chiunque ci chiedesse il perché, rispondevamo che era impossibile, per quanto lo desiderassimo, poter dare ai nostri figli una certezza economica in una terra, la Sicilia, che ha tutto, fuorché il lavoro.
Ma a volte, quando meno te l’aspetti, la vita ti riserva l’inaspettato, ti sorprende e ti stravolge. Ed eccoci qui, finalmente, in Sicilia. Stavolta sono io che ho seguito mio marito al sud: c’era un posto per lui nascosto da qualche parte e noi non lo sapevamo, uno spiraglio, una possibilità di tornare, a casa, di far crescere i nostri figli nello stesso posto che ha coccolato noi da piccoli, vicini agli affetti, quelli veri, caldi e sicuri della famiglia.
Come si può lasciarsi sfuggire questa occasione che fino a poco fa appariva impossibile? È un treno che passa una sola volta e la voglia di salirci è stata enorme. Ma sì, toccherà fare qualche sacrificio in più, ripartire un po’ da zero nel lavoro, non aspettarsi tutto e subito e pazientare per ritrovare un equilibrio stabile.
Tanti buoni propositi, tante aspettative, tanto ottimismo, la sensazione di sentirsi più leggeri, perché quando sei a casa tutto è più facile, tutto si affronta e si supera. Giusto il tempo di far nascere il nostro terzo figlio qui in Sicilia.
Lui è fortunato perché crescerà qui, non andrà al nido a 10 mesi, come i suoi fratelli, perché la mamma e il papà lavorano e non hanno nessuno a cui lasciarlo. Qui ci sono i nonni!
Intanto però il tempo passa e la voglia di tornare al lavoro è tanta. Ma come si fa, se la tua sede di lavoro è lontana migliaia di chilometri dai tuoi figli? Si può provare con la mobilità, vuoi che non abbiano un posticino per me, da qualche parte in Sicilia, mica per forza sotto casa, dopotutto ho tanti anni di servizio e un buon punteggio accumulato.
E invece niente, non c’è posto per me qui in Sicilia con la mobilita’, ma mai perdere le speranze. C’è pur sempre l’assegnazione provvisoria, vuoi che con un bambino di due mesi e altri due, di cui una ancora in età prescolare, non mi diano una sede? E ancora niente, neanche adesso.
Forse non c’è speranza per me.
C’è troppa gente che ha la precedenza perché forse sta male, oppure accudisce qualcuno, e comunque usufruisce dei vantaggi di una Legge, la famosa n.104 del 92, che in realtà, a ben pensarci, non si augurerebbe a nessuno.
Ma non tutto è perduto! C’è ancora una carta da giocare. Si chiama assegnazione temporanea ed e’ supportata da un decreto legislativo, il n.151 del 2001, che all’art. 42 bis tutela la maternità, il diritto costituzionalmente riconosciuto di tutela della famiglia perché i bambini hanno diritto di stare accanto ai loro genitori e di crescere in una famiglia sana, unita, che ci sia sempre e sia per loro punto di riferimento continuo. Basta contattare il sindacato, parlare con un avvocato, dargli tutte le informazioni, istruire una pratica e presentarla al giudice del lavoro della città in cui si presta servizio, il Miur si costituirà parte civile e poi ci sarà la sentenza, tempo 6 mesi, niente di più semplice, siamo tra l’altro ancora in tempo per ripartire il prossimo anno scolastico in una sede assegnata dall’USR il più vicino possibile al luogo di residenza, e comunque nella provincia in cui lavora il coniuge.
Perché mai un giudice, peraltro donna, dovrebbe rigettare il ricorso visti i dati oggettivi di una famiglia che non aspetta altro di ricominciare a vivere con delle certezze? Del resto i tre figli ci sono, di cui uno di appena sei mesi alla presentazione dell’istanza e, requisito fondamentale per l’applicazione del decreto legislativo, non ha ancora compiuto i tre anni; c’è un marito che lavora nella provincia di residenza con tanto di dichiarazione del datore di lavoro: mi pare che ci sia tutto, ce la posso fare!
Ho fiducia nella giustizia, e poi un giudice donna mi può certamente capire. Sono fiduciosa e ancora una volta ho la carica giusta. Se non fosse che l’avvocato mi chiama per dirmi che il giudice, sì proprio il giudice donna su cui avevo riposto ogni mia speranza, ha rigettato il ricorso, omettendo di fornire una motivazione e così i tempi si allungano, e non mi è data possibilità di capire perché la mia famiglia non merita di veder rispettato un diritto costituzionalmente riconosciuto.
Certo, si può ricorrere in appello, ma ci vorranno dai sei ai nove mesi e questo significa che ci vorrà un intero anno scolastico, un altro ancora, e io dovrò lasciare la mia famiglia per tornare in servizio, visto che, nel frattempo, ho esaurito ogni tipo di permesso o congedo. Ma sono forte, la speranza è l’ultima a morire. Forse se richiedo il trasferimento, anche quest’anno, e stavolta chiedo delle sedi strategiche come le isole di Pantelleria e Favignana, potrei farcela. Lì non vuole andarci nessuno, del resto non è che sia così comodo arrivare fin lì, ma a me invece può essere utile, quantomeno per far ritorno da fuori regione all’interno dello stesso ambito, e poi si vedrà, tutto sarà più semplice.
È il 1 giugno. Oggi si sapranno i risultati della mobilità. Il mio nome deve esserci per forza. Forse devo leggere più attentamente. Deve esserci e non lo vedo. Non lo vedo.
Non c’è! Angoscia, delusione profonda e un forte senso di amarezza.
TANTA RABBIA!!! E ADESSO?
Forse lo sapevo già, ma speravo fino all’ultimo che le cose cambiassero. A chiunque mi chieda, ho imparato a dire ‘Non fa niente: me lo aspettavo’. Mi dico che è tutto ok: basta non pensare! Come mi sento? Ferita, sola, confusa, sul punto di piangere, abbandonata, depressa, con la voglia di mollare tutto, demotivata, senza forze, abbattuta, pronta a rialzarmi, vuota, sconfitta, sul punto di crollare da un momento all’altro.
Ma devo reagire, devo farlo per quegli occhietti teneri che mi guardano ogni mattina appena svegli e ogni sera prima di addormentarsi tra le mie braccia. Lui non sa ancora parlare e non capisce, ma i suoi fratelli sì. Avvertono che c’è qualcosa che non va, lo sentono anche se cerco di non farglielo pesare, lo leggono nei miei occhi, ed io alle loro domande del perché non possono scegliere di vivere nel posto in cui si sentono più sereni e protetti, non so cosa rispondere, e intanto nascondo una lacrima.
Questo vuole essere uno sfogo di una insegnante che, come tante, dopo anni di sacrifici e impegno, cerca la forza per lottare contro un sistema sbagliato verso il quale ci si sente spesso impotenti e senza armi. Uno sfogo per quanti nella mia situazione lottano da anni per vedere riconosciuto il diritto a vivere una vita vicino ai propri affetti, il diritto di vedere sorridere i propri figli, di portarli a scuola e vederli crescere da vicino. Il diritto di lavorare a scuola e di farlo con animo sereno, di poter essere messi nelle condizioni di fare bene il proprio lavoro e di poter portare avanti quella missione che permette di accendere nei bambini il fuoco della curiosità e della motivazione perché diventino non meri “contenitori ma amanti del sapere” (cit.). Il diritto di lavorare con dignità senza chiedere niente in cambio se non il rispetto verso anni di studio, di formazione, di sacrifici lontani da casa, di tenacia, di speranze in un ritorno, e di voglia di mettersi sempre in gioco per amore di quei bambini che sono la nostra vita, senza dei quali la scuola non esisterebbe.
— Anna Maria Sacco, un’insegnante delusa