La Cultura del Razzismo che Contamina la Scuola: chi ha Paura degli Studenti “Negri”?

8 del mattino. Arrivo con un certo anticipo rispetto alla mia lezione. Mentre passeggio nel silenzio del corridoio della scuola (pubblica) che ospita i corsi per adulti nei quali insegno, mi accorgo che, sulla porta della classe degli stranieri, c’è un adesivo che reca la scritta STOP INVASIONE, con il simbolo del partito che trova la sua forza propulsiva nei feudi del Nord Italia. È chiaro che qualcuno non è così contento di ospitare. Non tolgo l’adesivo affinché qualche collega, o diretto interessato, possa vedere e rendersi conto dello S/stato in cui siamo.

 

Ho in realtà distolto subito l’attenzione dal simbolo in sé e dalle implicazioni dei microcosmi da bar e da campagna elettorale di provincia, marginali perché non mi trovo al supermercato o in discoteca, ma in un luogo che nasce per favorire la conoscenza e il dibattito. La questione va ben oltre l’identità politica di chi manda il messaggio e investe l’aspetto culturale non di una regione, ma di un paese intero, noto per non avere memoria storica e, di conseguenza, la consapevolezza del presente. La responsabilità di questa voragine terrificante trascende la scuola, pur in parte colpevole (e lo dico da studente, non da neoinsegnante), e investe le famiglie, la comunicazione, l’educazione e la cultura popolare; insomma, tutto ciò che contribuisce alla formazione di una persona.

 

Mi è tornato alla mente tutto quell’immaginario cinematografico e iconografico accumulato ai tempi del Liceo negli spazi dedicati a quei temi che includono l’educazione alla cittadinanza, il saper stare al mondo e una serie di dibattiti un po’ sportello psico-pedagogico e un po’ dogmi della religione cristiana presi a prestito a seconda del contesto. Di quel marasma ho mantenuto un ricordo cristallizzato, la visione di American History X, una parabola efficace e cruda sul razzismo e sulle conseguenze degli esempi sbagliati nelle generazioni a venire; un manifesto dell’inutilità e del potere autodistruttivo dell’odio verso chi è percepito come diverso. Il dramma della famiglia nel film è il dramma sociale che si cela dietro al messaggio intimidatorio che ho visto: non abbiamo imparato niente.

 

cultura del razzismo

 

Il solito vuoto culturale, di educazione e di comunicazione ritorna puntuale da centinaia di anni e mi fa pensare che qualcosa non vada, che un messaggio fondamentale non sia passato. Non è possibile che dall’Alabama di un secolo e mezzo fa non sia cambiato niente nella sovrastruttura mentale delle persone, dove alla violenza e alla persecuzione si sono sostituiti gli stereotipi recitati a memoria, che ricalcano l’annosa ignoranza che contamina il modo di ragionare dei più giovani, che crescono con gente che ha il coraggio di rimpiangere i tempi dei totalitarismi e crede che il mondo finisca con il confine tracciato col righello dall’Occidente.

 

Onestamente, come fanno a esistere ancora i razzisti? Una categoria che, a mio modo di vedere, dovrebbe appartenere a un mondo lontano nella storia dell’evoluzione, quando non esistevano ferrovie ed elettricità e i libri stampati erano un privilegio di aristocratici ed ecclesiastici. Eppure, appena è possibile, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di comunicare la sua fiducia nelle teorie della razza. Perché di questo stiamo parlando. Come non accorgersi che la maschera occasionale della scarsità dei posti di lavoro o del benessere della propria famiglia continua a nascondere la solita diffidenza e intolleranza di stampo razziale? Il capro espiatorio, da quando esiste il mondo, risiede nel “diverso”, quello che viene da fuori, ed è incredibile che sia ancora così. Nemmeno la fantasia di inventare un’altra filastrocca.

 

A che cosa servono la giornata della memoria e i film sul razzismo se non si chiamano in causa i genocidi nel Terzo mondo e non si insegna a capire che mille africani trucidati non valgono meno di due, tre connazionali morti all’estero? Rischiano di non servire a niente nel concreto, proprio come i compleanni, automatismi alla fine dei quali si guarda l’orologio e si pensa “ah, è passato anche quest’anno”. Magari investire meno sui documentari sul Terzo Reich e sui Panzer da montare con i periodici in edicola e più sui concetti di abolizionismo, segregazione razziale e integrazione aiuterebbero a portare avanti l’orologio del nostro paese, rimasto indietro di decine di anni, tra macchiette e pregiudizi che a fine Ottocento erano già datati.

 

Senza contare che, ogni volta in cui si cerca di ricordare qualche strage di civili in tv, basta togliere l’audio per avere la sensazione di trovarsi di fronte a una celebrazione dei carnefici e della loro quotidianità; citando un amico durante lo zapping nella giornata sopra citata, “ma questa non è la giornata degli ebrei, è quella dei nazisti”. Si imboccano le persone con le stesse modalità della cronaca nera, dove il “chi” e il “come” contano più del “perché”, dal quale ogni fatto storico non può prescindere nella maniera più assoluta. Quasi nessuno si interroga, per esempio, su quando e come siano nati Israele e Palestina, o cosa significhi “ebraismo”, mentre si conoscono almeno due o tre nomi di gerarchi nazisti, i luoghi di villeggiatura dei dittatori e cosa questi facevano nel week-end. Qualcosa non quadra, è lampante.

 

Così come è grottesco che sia ancora viva la consuetudine di denominare “marocchino” qualsiasi persona provenga dall’Africa o, semplicemente, abbia una carnagione più scura rispetto allo standard caucasico; che strano, torno a scuola dopo 15 anni e scopro che il “continente nero” è rimasto l’argomento di rimbalzo del colonialismo di fine ‘800: il Belgio prende questo, la Germania quello, che poi passa alla Francia… fine del gioco. Tanto a chi interessa. Nemmeno il Cristianesimo e il suo profeta, che qui hanno un certo seguito, hanno fatto breccia nei cuori dei proseliti con 2.000 anni di prediche sull’uguaglianza degli uomini e la carità verso il prossimo; la religione sembra ormai solo strumento di argomentazione per legittimare o meno tipologie di matrimoni e uso di anticoncezionali.

 

Ho pensato a mia bisnonna, bambina, che sbarcava a Ellis Island e non sapeva dove stava andando, masticando la buccia della banana che le era stata offerta perché non aveva mai visto quel frutto. Come sono stati accolti i nostri avi che cercavano fortuna? Gli abitanti di New York ridevano di loro, li temevano? Non ci vuole tanto per documentarsi e sentirsi, per una volta, dall’altra parte del filo spinato… I ruoli sono da sempre gli stessi, cambia solo il colore delle pedine e ancora si fa finta di non capirlo; o semplicemente nessuno insegna queste cose. Che cosa significano “invasione”, “confine”, “straniero”, “migrante”? E chi ha coniato questi termini, e per che cosa? Non ragionare sull’origine di questi aspetti preclude qualsiasi possibilità di comprensione della realtà odierna e sarebbe utile lavorare sul significato delle parole affinché ognuno possa valorizzare il proprio vocabolario in modo cosciente e il lessico non sia solo uno strumento di slogan manipolatori, spesso senza senso e senza fondamento logico.

 

Oppure possiamo continuare a credere che chiunque venga da Senegal, Ghana o Nigeria sia l’ologramma del “povero negro” preso a cinghiate sull’Amistad, anacronistico e che quindi non è qui, ora e in mezzo a noi.

 


Autore articolo
Marco Rovaris

Marco Rovaris

Insegnante, freelance, critico cinematografico

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