Sopra la Casa di reclusione di Opera, a Milano, anche questa mattina il cielo è bianco sporco. Lo vedo se mi avvicino alle sbarre e guardo su, altrimenti vedrei solo il grigio dei blocchi tutto intorno.
Noi siamo in classe con il piumino perché non va il riscaldamento, quando decido di fare una cosa che non si potrebbe fare: divido il mio cappuccino con uno studente per dargli appoggio e conforto. Non riesce a concentrarsi perché gli manca la nonna, che ha sognato la notte prima, ma non ha il permesso di telefonarle; deve fare ancora 15 anni e ha paura di non sentirla più. Mia nonna manca anche a me.
Stiamo leggendo “Il piacere” di D’Annunzio, quando mi dice: “Questo qui vive di ricordi. Anche noi siamo un po’ così, ormai siamo adulti e leghiamo ogni periodo della vita a ricordi di un attimo. Ripenso a quando ero bambino e ora sto facendo una vita di merda, ma tra 30 anni ripenserò a quando ero in galera e al gesto che hai fatto tu oggi: per me vale tantissimo. Non lo dimenticherò mai.“
Questo è uno dei tanti aneddoti che racconterei a chi mi chiede come è fare quello che faccio. D’altro canto ce ne sono altrettanti che farebbero passare la voglia alla maggior parte delle persone. Il rapporto con il carcere non è questione tanto di prendere le misure, ma è in primo luogo una questione di compatibilità. In un certo senso bisogna essere portati: spesso sono stato investito dalla retorica del “bravo, è una missione”, ma penso si tratti, molto più concretamente, di un lavoro come un altro, ma non adatto a tutti
Sono fortunato a stare in un ruolo che sembra disegnato apposta per me, come un abito di sartoria; nessun percorso di studi e nessuna abilitazione mi hanno formato per questo posto, valgono di più il mio background e i miei interessi, che si snodano lungo esperienze di vita e contesti che spesso si sono incrociati con quelli dei miei studenti. Ecco perché non ho mai avuto un pregiudizio nemmeno per un secondo, non mi sono mai sentito superiore e neanche un’autorità, che è un concetto che si sposa con la concezione tradizionale del mestiere, ma che non corrisponde alla mia persona. Non alzo la voce, non inseguo la gente nei corridoi, non elemosino l’attenzione e non faccio il carabiniere.
Mi sento più un motivatore o un allenatore, perché ho modo di andare a investire con più tranquillità sulle competenze di ognuno e di personalizzare anche i percorsi: non bisogna dimenticare che si tratta di corsi che fanno riferimento all’istruzione degli adulti, quindi alcune dinamiche di programmazione cambiano in automatico. Inoltre avere a che fare in gran parte con coetanei mi permette di sviluppare un’empatia particolare che si basa su questioni generazionali e su stili di vita e contesti che abbiamo vissuto contemporaneamente nel passato.
Per esempio, molti studenti vengono dalla megalopoli padana e, prima dell’arresto, frequentavano luoghi e locali che conosco, provenivano da realtà in cui sono cresciuto io stesso… non si può sottovalutare quanto conti avere una base comune di questo tipo per costruire un rapporto umano con dei ristretti, che ritrovano in me una parte della loro quotidianità da liberi e sono portati a fidarsi di più, perché è un motivo in più per non sentirsi giudicati. Ed è al contempo noto quanto sia un problema nella scuola la distanza generazionale e di mentalità, uno dei fattori che oggigiorno non consente ai docenti un aggancio forte sugli studenti.
La chiave non è quello che so e quanto posso insegnare, ma la persona che sono e come vengo percepito. Questo in fondo vale ovunque, chiaro, ma in carcere non solo non si prescinde dal rapporto umano, ma questo è la prima cosa che si mette sul banco ed è fondamentale capirlo subito, perché ci si trova in un ambiente con delle fragilità tali da non consentire spesso un solo passo falso e basta una carta messa male per far crollare tutto il castello: una parola sbagliata, un giudizio fuori luogo possono innescare un meccanismo che guasta i rapporti. Si può parlare di cultura del rispetto reciproco e della convivenza in uno spazio angusto, dove né i detenuti né gli operatori esterni come me sono di casa: in carcere i padroni sono altri.
Il rispetto è dato e lo si riceve di conseguenza, è una delle prime regole che si imparano diventando grandi, quando si esce dalle mura domestiche e ci si confronta con il mondo esterno, con la strada, dove conta la persona ancora prima del ruolo; non si può battere la stecca a persone che sono uscite dal confine del consentito perché si otterrebbe l’effetto opposto, ed è lo stesso motivo per cui un regime di carcere punitivo senza rieducazione rimetterà in libertà degli elementi incattiviti e che torneranno probabilmente a delinquere.
È il caso di dire che si può fare degli inconvenienti uno stimolo per escogitare nuove metodologie. Non esistono libri di testo dedicati ai corsi, tranne vecchi manuali che si sono accumulati nel tempo negli armadi, donati da qualcuno o parcheggiati dalle scuole, tutti ovviamente di edizioni diverse. Questa mancanza consente in realtà di preparare testi ad hoc per una lezione particolare, o scegliere passi che una normale antologia non includerebbe mai. Sono quindi libero di portare, per esempio, testi di Sade, De Quincey, Gautier, senza preoccuparmi dei contenuti o della censura dei genitori, i quali, al massimo, i colloqui li fanno una volta al mese con i figli in galera, non certo con me… Lo stesso insegnamento della storia diventa con gli adulti un dibattito continuo e ricchissimo e posso soffermarmi su quello che voglio. La Riforma protestante, il colonialismo, i totalitarismi, sono argomenti che accendono vespai in un ambiente multietnico e con diverse fedi religiose: l’importante è saperli gestire.
Purtroppo mi sono anche accorto di quanto la condizione del detenuto lo porti spesso a radicalizzare le proprie convinzioni politiche e ad arrivare anche all’estremismo: ancora non mi capacito di quante persone (in questo momento storico anche fuori, certo, ma dentro di più) siano ancorate al bipolarismo “destra-sinistra” di 70 anni fa e continuino a palleggiarsi le stesse tre frasi dei tempi dei nostri nonni, nonostante io cerchi sempre di riportare all’attualità il dialogo. Questo in realtà accade perché il carcere è un ambiente che impenna il livello di paranoia, situazione che porta chiunque ad ancorarsi ulteriormente alle proprie fissazioni. Temo non ci sia una soluzione a queste ragnatele mentali, se non la convinzione nel voler sempre mettersi in gioco, partecipare ad attività e vivere con obiettivi che diano un valore diverso alla triste stagnazione del tempo che percepisce chi vive lì dentro.
Mi sono reso conto di cosa voglia dire fare il mio lavoro una sera d’inverno, mentre passavo in auto nei pressi del carcere, quando stavo ancora al circondariale di Bergamo. Abituato a entrare e uscire di giorno, sono rimasto scosso nel vedere le luci di alcune finestre accese nel buio in mezzo a quelle mura grigie, realizzando così, in una maniera quasi infantile, che i miei studenti sono veramente rinchiusi lì nell’inesorabile loop dei giorni. Mi sono sentito molto triste, come se la loro condizione fosse un problema mio. La maggior parte della gente, quando dico queste cose, mi dice che non è normale che io mi affezioni a queste persone, perché sono criminali. E sono proprio queste parole che mi danno la conferma, ogni volta, che questo non è il loro mestiere: è il mio.